Matuta

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MATUTA

–         (Nome latino, propr. ‘Mater Matuta’, di un’antica divinità romana venerata prima, con Giano ‘pater matutinus’, come dea dell’aurora, poi come protettrice delle donne partorienti. Il suo culto fu diffuso in tutta l’Italia centrale, in suo onore si celebrava la festa delle ‘Matralie’).

– Treccani –

Una semplice ed onesta piastra di ferro, fa da base alla scultura; il suo utilizzo è stato studiato e realizzato perché la relativa durezza del minerale possa suggerire una adeguata analogia alla tenacia dei sentimenti.

Iniziando la lettura dal basso si nota una figura informe che accenna un timido movimento deambulatorio ma, ruotando appena la struttura, risalta subito il guizzo di un grosso pesce il cui occhio, dilatato e abituato alle profondità marine, sembra scrutare verso l’alto, qui però l’orbita risulta vuota per esprimere più compiutamente l’immanente Presenza del divino, mentre la sua coda si esibisce nell’interpretare una insolita cariatide ad uno dei due arti su cui si sviluppa ulteriormente la scultura.

Il pesce è uno dei simboli più largamente diffuso, consacrato dalla religione e dal mito, esso è associato anche all’elemento acqueo, femminile e primordiale, da cui sono scaturite tutte le forme di vita. (J. C. Cooper) Né va dimenticato che il nome del pesce in greco è:   I c h t h u s   mentre il suo acrostico va sviluppato nel modo seguente: Iesous Christos Theou Hyios Soter = ‘Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. (J. C. Cooper)

Da subito si nota una palese sproporzione fra un arto e l’altro e ciò è dovuto alla necessità di mettere in risalto una avvolgente flessuosità, sviluppandola al massimo, del braccio che circonda e protegge, mentre l’altro si leva timidamente in alto ma senza attingere confini forse inaccessibili. Ecco quindi una mano si prodiga nel circondare e proteggere, paga di esprimere dedizione e donare consolazione, l’altra più ampia e quasi completamente aperta, indica in alto per ricordare che quando avversità e delusioni infieriscono possiamo sempre impetrare dal Cielo grazie ed aiuto.

Nella elaborazione dell’opera la scelta delle dimensioni diverse denota forse un lontano influsso di un celebre dipinto di Rembrandt, (‘Il ritorno del Figliol prodigo’ collocato attualmente nel Museo Ermitage di S. Pietroburgo), in cui una mano del genitore risulta più vigorosa ed ampia dell’altra.

Ma la scultura vuole porre un rilievo non tanto la figura materna in genere, bensì quel complesso di gestualità e di fede che scaturiscono dal cuore e che, dal primo vagito e sino agli ultimi istanti, hanno cullato e sedimentato il nostro bisogno di affetto e di sensibilità incarnati nell’immagine materna e che il Cielo, nella Sua onniscienza, ha voluto farne dono alle Sue creature.

Il gesto ampio ed avvolgente di un braccio esprime tenera sollecitudine, abbraccio materno, l’altro evolvendosi verso l’alto rivolge l’invito ad implorare; entrambi gli arti quindi fanno riferimento ad una dualità di concetti: l’uno profonde tenerezza ed amore, l’altro speranza e fede e risulta più corposo e sovradimensionato avendo come fine ultimo il Cielo e le sue copiose grazie.

La mano ampia, quasi dilatata nella sua completa estensione, e pur curva nella sua umana natura, interpreta la profonda ed acuta necessità dell’umano di attingere spazi di spiritualità, di fede, di riscatto interiore che possano dare un senso al grigio susseguirsi delle stagioni; l’altra mano, sommessa nella sua dimensione raccolta e minuta, dialoga intensamente col nostro cuore per donare affetto senza fine. Il vuoto centrale, vasto e irregolare, esalta e circoscrive la zona dei sentimenti, quella spiritualità invisibile ma palpitante e viva nel profondo del nostro io.

I nostri progenitori, i Romani, annettevano grande importanza all’inizio del giorno e per questo si affidavano alle grazie di una dea, e da sempre il sorgere di una nuova alba viene paragonato all’affacciarsi alla vita di un bambino, che per la prima volta apre gli occhi alla luce.

Non è senza ragione che per l’opera sia stato riesumato il sostantivo coniato dai nostri Avi perché rispecchia un riferimento a tempi remoti per esprimere un concetto elevato e complesso, (qui sintetizzato nella veneranda essenza di un ultracentenario ‘Albero della Vita’ un vetusto Olivo): la   M a t e r n i t à .

Sempre grande.  Sempre commovente.  Sempre unica.

‘Matuta’ emerge dal passato per esprimersi nell’attuale e mostrare uno dei tanti aspetti della maternità semplice ed intenso come la vita di cui ella ogni volta è vocata a farne dono.

La scultura, lungi dall’essere una gratuita blasfemia, è scaturita da una appassionata ricerca ispirata alle origini e concretizzata in una figurazione di sobria ieraticità per descrivere la missione sublime della maternità nella sua silente, appartata, assoluta dedizione.

Quell’aura e quell’incanto che si creano e si sprigionano da una mamma nell’atto di nutrire, abbracciare, difendere e proteggere la propria creatura va percepito come uno degli innumerevoli miracoli che costellano la nostra esistenza.

In quegli istanti in cui dolcezza e dedizione scrivono le loro pagine più belle non è raro che l’Occhio del Cielo si soffermi a posare il Suo sguardo sulle meschine aridità della nostra creta per donarci il Suo sorriso e suggerirci un vocabolo che si libra alto sulle ali della poesia per effondere affetto e tenerezza senza fine:   M a m m a   . Ci accompagnerà sempre.

Discreto.    Struggente.        Insostituibile.

Ancora una volta il Creato, utilizzando un anonimo frammento di Olivo secolare riesce a commuoverci per aiutarci a capire ed ammirare e, soprattutto, stupirci di quelle splendide e meravigliose avventure che danno origine ad un nuovo giorno e alla nascita di una nuova creatura.

(Dietro ogni cosa, in Natura, esiste un’idea di ciò che è l’oggetto, ed è quest’idea ad essere reale, non l’oggetto stesso).

– Aristotile – 384/322 A.C. –

 

MMIX

 

Francesco Paolo Danisi